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VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE. Che cosa dicono le prove scientifiche

11 Novembre 2020

Premessa

Iniziamo con questa pubblicazione a rendere disponibili i documenti tecnici significativi che sono stati utilizzati nel ricorso avverso l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Lazio del 17.04.2020, ordinanza con la quale aveva introdotto l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale per tutti gli ultrasessantacinquenni, nonché per tutti i medici e personale sanitario, con decorrenza dal 15.09.2020.

Lo scopo di questa, come delle future, pubblicazione è di mettere a disposizione una sintesi significativa delle relazioni prodotte: per i necessari approfondimenti si rimanda alla lettura dei documenti integrali.

Per non alterare la trattazione i testi utilizzati sono stati copiati integralmente dal documento originale che viene messo a disposizione in allegato (se disponibile) o attraverso il collegamento ipertestuale alla fonte.

Buona lettura.


Documento di riferimento:

Vaccinazione antinfluenzale

che cosa dicono le prove scientifiche Vaccinare in modo indiscriminato anziani, gravide, bambini e sanitari può risultare più dannoso che utile?

Alberto Donzelli, Daniele Agostini, Paolo Bellavite, Adriano Cattaneo, Piergiorgio Duca, Eugenio Serravalle

Documento disponibile su:

https://www.fioritieditore.com/salute-e-istituzioni/ e scaricabile all’indirizzo https://fioritieditore.com/wp-content/uploads/2020/06/Donzelli20200626.pdf

 

Altri contributi utili, indirizzati ad interlocutori medici ed istituzionali, dagli esperti della Rete Sostenibilità e Salute a cui appartengono gli autori del documento potete trovarli ai seguenti indirizzi:

La vaccinazione antinfluenzale estesa alla popolazione e resa obbligatoria può risultare più dannosa che utile? – Comunicato Stampa del 16 giugno 2020, https://www.sostenibilitaesalute.org/la-vaccinazione-antinfluenzale-estesa-alla-popolazione-e-resa-obbligatoria-puo-risultare-piu-dannosa-che-utile-comunicato-stampa-del-16-giugno-2020/

La RSS richiede una moratoria sull’estensione della vaccinazione antinfluenzale (e sugli obblighi disposti da alcune Regioni), 3 settembre, 2020, https://www.sostenibilitaesalute.org/4970-2/

Inoltre, in Comunicato ISDE:

Vaccinazione antinfluenzale: la posizione di ISDE Italia: https://www.isde.it/vaccinazione-antinfluenzale-la-posizione-di-isde-italia/

 

Che cosa si intende per influenza e per sindromi influenzali?

L’influenza è una malattia respiratoria acuta molto contagiosa, dovuta all’infezione da parte di virus influenzali, che si trasmette per via aerea. È stagionale e, nell’emisfero settentrionale, si presenta nel periodo invernale, soprattutto tra dicembre e marzo. Gli agenti causali sono di tre tipi, costituenti il genere Orthomixovirus: il virus di tipo A e il virus di tipo B, responsabili dei sintomi influenzali classici, e quello di tipo C, di scarso rilievo clinico (spesso asintomatico).

Alla base dell’epidemiologia dell’influenza vi è la marcata tendenza dei virus influenzali a variare, acquisendo cambiamenti nelle proteine di superficie (H, N) che permettono di aggirare la barriera dell’immunità presente nella popolazione che ha subito precedenti infezioni influenzali.

Esistono per altro molte sindromi respiratorie con sintomi assai simili e spesso confuse con l’influenza in assenza di un tampone che consenta l’isolamento del virus e una conferma sierologica, che è effettuata solo in casi particolari o negli studi con fini di ricerca. Pertanto, nella comune pratica clinica, si parla più correttamente di “sindromi simil-influenzali” (in inglese influenza-like-illness, ILI) o semplicemente di “sindromi influenzali”, perché la diagnosi si basa in genere sui sintomi clinici e sulla concomitanza del periodo epidemico.

Ai fini delle scelte di sanità pubblica, a maggior ragione se rese vincolanti, è fondamentale sapere che la vaccinazione antiinfluenzale non copre gran parte delle ILI. Si stima che ogni anno il 5-10% della popolazione adulta e il 20-30% di quella pediatrica siano colpite da ILI (ISS 2020), ma solo una parte minoritaria di queste malattie è influenza da virus influenzale.

L’influenza e le sindromi influenzali sono clinicamente indistinguibili. Dalla stagione influenzale 2014-2015 la definizione clinica di “sindrome influenzale” è stata modificata per renderla omogenea a quella adottata in Europa dall’ECDC (Decisione della Commissione Europea del 28/04/2008). Per garantire la massima omogeneità di rilevazione, è fornita una definizione clinica di “sindrome influenzale” che include le manifestazioni acute con sintomi generali e respiratori.

Il medico sentinella effettua, su un campione di tali pazienti, un tampone faringeo che è analizzato nei laboratori regionali di riferimento appartenenti alla rete InfluNet, per l’identificazione dei virus influenzali circolanti (sorveglianza virologica). I dati epidemiologici e virologici sono resi disponibili attraverso il rapporto settimanale pubblicato sui siti web del Ministero della Salute e della sorveglianza InfluNet. Prendiamo in esame i dati relativi alla stagione 2018-19, caratterizzata da un’elevata circolazione virale e da un’elevata incidenza di ILI perché quelli della stagione 2019-20 potrebbero presentare particolarità determinate dalla pandemia di Covid-19.

Nell’intera stagione influenzale,

  • il 13,6% del campione ha avuto una ILI, per un totale stimato nella popolazione di circa 8.072.000 casi, con la seguente distribuzione per età:

  • il 37,3% nella fascia 0-4 anni,

  • il 19,8% nella fascia 5-14 anni,

  • il 12,8% tra gli individui di età compresa tra 15 e 64 anni

  • e il 6,2% tra gli anziani di età pari o superiore a 65 anni.

Dall’analisi virologica, effettuata su 20.174 campioni, 6.401 (31,7%) erano positivi ai virus influenzali (Istituto Superiore di Sanità 2019).

Il dato non si discosta da quello della media delle cinque stagioni precedenti, dalla stagione 2013-2014 alla stagione 2017-2018. A fronte dei 29.796.000 casi complessivi stimati di sindrome influenzale, i casi di influenza confermati dalle analisi di laboratorio corrispondono a una stima di 9.162.000 casi, il 30,7% [da 23.3% a 34.1%]

Alcuni studi sulle cause di ricovero nei mesi invernali dei bambini (i soggetti in percentuale più colpiti dalle sindromi influenzali) indicano la prevalenza di altri virus come il virus respiratorio sinciziale, i virus parainfluenzali, i rinovirus (Schanzer et al. 2006, Kusel et al. 2006). Si stima che la proporzione attribuibile ai virus influenzali in età pediatrica sia inferiore al 10% (Ministero Salute 2003).

In assenza di studi adeguati atti a identificare con precisione i virus e batteri che circolano insieme a quello influenzale nella popolazione di tutte le età, il fatto di definire come “influenza” qualsiasi infezione respiratoria e sovrapporre i dati delle sindromi simil-influenzali a quelli dell’influenza crea una visione alterata del fenomeno sia nella popolazione che negli stessi medici e determina una distorsione nella valutazione del peso della malattia – in termini di assenze da scuola e dal lavoro, di spesa a carico del SSN, di complicanze, ricoveri, morti – che ha conseguenze rilevanti per le decisioni di sanità pubblica (Grandori 2009).

Dalla stagione pandemica 2009-10 è attiva in Italia la sorveglianza delle forme gravi e complicate di influenza. Sono così definite tutte le infezioni respiratorie acute (Severe Acute Respiratory Infections, SARI) e/o tutte le sindromi da distress respiratorio acuto (Acute Respiratory Distress Syndrome, ARDS) le cui condizioni prevedano il ricovero in unità di terapia intensiva (UTI) e/o il ricorso alla terapia in Ossigenazione Extracorporea a Membrana (ECMO), in cui sia stata confermata in laboratorio, attraverso il prelievo di un campione clinico, la presenza di un tipo/sottotipo di virus influenzale.

La Tabella 1 riassume i casi gravi e decessi dall’inizio della sorveglianza:

Tab. 1 Numero di casi gravi e decessi nelle stagioni influenzali2009/10 - 2018/19

Stagione influenzale

Gravi

Deceduti

2009-10

582

202

2010-11

405

160

2011-12

36

8

2012-13

175

80

2013-14

72

19

2014-15

445

187

2015-16

86

34

2016-17

161

69

2017-18

587

180

2018-19

812

205

 

L’ISTAT ogni anno codifica i casi di decesso e, nella sezione malattie del sistema respiratorio (e non nella sezione malattie infettive) attribuisce all’influenza e alle polmoniti le seguenti morti (Tabella 2):

 

Tab. 2 Numero di decessi per influenza e polmonite 2010-2017 secondo ISTAT

Anno

Decessi per influenza

Decessi per polmoniti

2010

217

7 239

2011

510

8 383

2012

458

9 276

2013

417

9 068

2014

272

9 141

2015

675

11 632

2016

316

10 837

2017

663

13 561

 

È indubbio che l’influenza determina un eccesso di mortalità, ed è verosimile che sia i dati ISTAT sia i dati InfluNet possano essere sottostimati, ma non si possono certo imputare ai virus influenzali tutti i decessi da polmonite, e non si può neppure attribuire esclusivamente all’influenza l’aumento dei decessi per tutte le cause che si registra nel periodo dell’anno definito “stagione influenzale”, che comprende ben 28 settimane.

In quale misura il vaccino protegge dall’influenza? E dalle sindromi influenzali?

La vaccinazione stagionale è valutata sia per la sua efficacia teorica/potenziale – EFFICACY - misurata nella capacità di produrre anticorpi in condizioni controllate, sia per la sua efficacia pratica – EFFECTIVENESS - misurata nella capacità di ridurre effettivamente l’influenza “sul campo”, tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati.

L’efficacia pratica di regola è più bassa di quella teorica per varie ragioni:

  • la prevalenza di patologie simil-influenzali nel corso della stagione influenzale,

  • la corrispondenza del vaccino commercializzato (in base a previsioni) con i tipi vaccinali effettivamente circolanti nella successiva stagione influenzale,

  • i cambiamenti antigenici che lo stesso sottotipo di virus può presentare nel corso dell’inverno (drift/deriva, mutazioni minori e shift/cambi antigenici, con mutazioni maggiori).

C’è anche una teoria del “peccato originale” antigenico (Biswas et al. 2020), descritta per la prima volta proprio per il virus dell’influenza, che spiega la ridotta efficacia del vaccino in soggetti già immunizzati in precedenza, perché il sistema immunitario, benché sollecitato dal vaccino dell’anno in corso, nei già immunizzati si dirigerebbe anzitutto verso gli antigeni in comune con quelli di virus precedenti, perdendo quindi di specificità proprio verso il virus portatore delle mutazioni più recenti.

QUANTE PERSONE DEVONO RICEVERE UN’INIEZIONE DI VACCINO ANTINFLUENZALE PER EVITARE UNA SINDROME INFLUENZALE (CHE INCLUDE ANCHE, MA NON SOLO, LE INFLUENZE)?

Sulla base di tutti gli studi validi disponibili, le Revisioni sistematiche Cochrane hanno calcolato il numero di persone che è necessario vaccinare (NNV) per evitare 1 caso di influenza e 1 di ILI.

Le ILI non sono clinicamente distinguibili dalle influenze, e includono sia le patologie provocate da virus influenzali A e B, sia infezioni da altri microrganismi che danno sintomi analoghi (per cui la vaccinazione antinfluenzale, che è specifica per le influenze, ha di norma un’efficacia minore nel ridurre il più vasto e meno specifico insieme delle ILI).

  • Per i bambini (2-16 anni, 41 studi su oltre 200.000 partecipanti, con vaccini inattivati) il NNV è 5 per l’influenza confermata in laboratorio, ma 12 per le ILI. L’efficacia nella fascia 6-35 mesi sembra significativamente minore (Jefferson et al. 2018).

  • Per gli adulti (16-65 anni, 52 studi su oltre 80.000 partecipanti) il NNV si situa tra 29 e 71.

  • Per le gravide è 55 (Demicheli et al. 2018).

  • Per gli anziani (>65 anni, 8 studi su oltre 5.000 partecipanti) il NNV è 30 per evitare un’influenza, 42 per evitare una ILI (che include l’influenza) (Demicheli et al. 2018).

Come effetto pratico di una vaccinazione sembra più logico far riferimento alla riduzione attesa delle ILI, anziché a quella delle sole influenze, anche perché può accadere che le vere influenze si riducano, ma che l’insieme delle ILI non si riduca affatto (van Beek et al. 2017).

In una parte dei casi ciò può accadere per il fenomeno dell’interferenza virale.

La vaccinazione antinfluenzale consente di distinguere una sindrome influenzale da una forma lieve o iniziale di COVID-19?

Le differenze epidemiologiche tra influenza, sindromi influenzali e Covid-19 sono ancora più marcate:

  • le prime colpiscono principalmente la popolazione pediatrica, con il 57,1% nella fascia 0-14 anni a fronte del 6,2% nella fascia sopra 65 anni (dati riferiti alla stagione 2018/2019).

  • La Covid-19, al contrario, interessa maggiormente le fasce di età avanzata.

Dal punto di vista clinico, la COVID-19, come le malattie da altri coronavirus, si può manifestare con una sintomatologia sovrapponibile alla maggior parte delle sindromi influenzali. Le sindromi influenzali sono causate da un gran numero di agenti microbici oltre ai virus influenzali, e non è possibile distinguere l’agente eziologico in base al quadro clinico.

Si è visto che nelle stagioni influenzali dal 2013 al 2019:

  • su 100 ILI circa il 30% sono da attribuire ai virus influenzali A e B (anzi, probabilmente meno, per i motivi prima illustrati).

  • L’efficacia pratica media del vaccino antinfluenzale (EV) è meno del 50% (vedi tabella 2.1).

Pertanto, su 100 soggetti che presentano una sindrome influenzale, circa 30 avrebbero una vera influenza. Di questi poco meno della metà, cioè 15, non si ammalerebbero di influenza se vaccinati, mentre gli altri 85 potrebbero ammalarsi anche a causa dei virus influenzali, nonostante siano stati vaccinati.

Si comprende dunque che la pregressa vaccinazione non aggiungerebbe nulla di sostanziale a una corretta diagnosi eziologica, che necessita inevitabilmente di effettuare comunque almeno un test rapido, come indicato nel punto 4. per identificare i virus influenzali, e – auspicabilmente con lo stesso tampone – un test RT-PCR per diagnosticare la presenza del SARSCoV-2

Infine, anche considerazioni di sicurezza sconsigliano una vaccinazione antinfluenzale di massa: non si conosce né sul piano teorico, né su quello sperimentale ed epidemiologico l’effetto di questo vaccino (che comunque genera uno stimolo immunitario, anche aspecifico) somministrato a un paziente che sta incubando o svilupperà COVID-19.

Si ricorda che casi gravi di COVID-19 sono caratterizzati da una sindrome iper-infiammatoria (ARDS, CID, tempesta citochinica); non si può pertanto escludere che potrebbe produrre un peggioramento nel decorso della COVID-19.

Questo dubbio, sollevato a torto o a ragione da molti dovrebbe trovare risposta in un accurato studio delle cartelle dei casi di morte o COVID-19 grave.

ESISTONO MEZZI DIAGNOSTICI CHE CONSENTONO DI DISTINGUERE RAPIDAMENTE UNA SINDROME INFLUENZALE DA UNA FORMA LIEVE O INIZIALE DI COVID-19?

Esistono da tempo precise metodiche “RT-PCR” dette “multiplex” (Templeton et al. 2004, Mahony 2008), che consentono con un solo tampone orofaringeo o nasale di effettuare la diagnosi molecolare di molti diversi tipi di virus respiratori. Tale approccio è molto più razionale e preciso rispetto al tentare diagnosi “per esclusione”, considerando se un soggetto sia vaccinato o meno per una delle tante possibili ipotesi diagnostiche.

Quali sono le ricerche/studi di maggior validità, che consentono di stabilire con maggior certezza l’efficacia e gli effetti sanitari netti di un intervento sanitario?

Gli studi possono essere osservazionali o sperimentali.

Negli studi osservazionali i ricercatori “osservano, registrano”, ma non hanno il controllo dell’ambiente di ricerca e delle diverse variabili in gioco. Quando anche confrontano nel tempo ciò che accade in un gruppo che riceve ad es. una medicina o una vaccinazione, rispetto a un gruppo di controllo che non la riceve, non possono esser certi che le differenze rilevate siano dovute a quell’intervento e non invece ad altre caratteristiche che distinguono i due gruppi.

Gli studi osservazionali sono soggetti, tra gli altri, al cosiddetto “bias dell’aderente sano”: gli individui che aderiscono a terapie preventive hanno, al tempo stesso, più probabilità di seguire stili di vita più salutari rispetto a chi non aderisce a tali strategie preventive.

Allo stesso modo, in campo vaccinale, c’è il “bias del vaccinato sano”, che porta a sovrastimare l’efficacia e la sicurezza del vaccino. La vaccinazione antinfluenzale negli anziani ha già fornito un chiaro esempio di questo tipo di bias (Jackson et al. 2006)

Nelle studi sperimentali o di intervento, invece, l’assegnazione preventiva in base alle leggi del caso (randomizzata) di un numero elevato di partecipanti a un gruppo sperimentale che riceverà l’intervento (nel ns caso il vaccino), o a un gruppo di controllo, consente di distribuire in maniera di norma ben bilanciata tra i due gruppi sia i fattori di confondimento noti sia quelli ignoti che possono influenzare il risultato, dunque le differenze rilevate alla fine saranno ascrivibili all’unica variabile che distingue i due gruppi: l’intervento (nel caso considerato la vaccinazione).

Dunque, i “gold standard” di ricerche per valutare gli effetti netti di un intervento sono gli studi (prove/trial) controllati randomizzati, RCT (dalle iniziali dei termini inglesi Randomized Controlled Trial).

In assenza di randomizzazione, le analisi della maggior parte dei dati osservazionali tratti dal “mondo reale”, indipendentemente da quanto siano sofisticate, possono solo generare ipotesi (Gerstein et al. 2019).

Ci sono altre tre condizioni associate in modo sistematico a un’esagerazione dei benefici e della sicurezza di un intervento:

  • Studi con Sponsor commerciali/industriali;

  • Quando gli Autori principali, cioè il primo e l’ultimo indicati in ogni pubblicazione, hanno relazioni finanziarie con lo Sponsor;

  • Quando i RCT sono troncati precocemente rispetto al protocollo originario.

La presenza di una o più di queste condizioni riduce la fiducia nei risultati e nelle conclusioni riportate.

Gli RCT hanno dimostrato benefici della vaccinazione antinfluenzale per anziani con cardiopatia attiva. Ci sono prove da RCT che dia più benefici che danni anche ad anziani non cardiopatici?

I RCT relativi agli effetti sulla salute cardiovascolare e sulla mortalità della vaccinazione antinfluenzale negli anziani sono sorprendentemente pochi. La prima metanalisi di RCT in pazienti “ad alto rischio di malattie cardiovascolari (CV)” ne ha rintracciati 6: gli autori della metanalisi hanno affermato che il vaccino antinfluenzale si associava a una riduzione degli eventi CV maggiori, particolarmente forte in pazienti con cardiopatia coronarica più attiva. In realtà, nei soggetti non cardiopatici queste prove mancano.

Sono stati però pubblicati dati di mortalità anche di due piccoli RCT su paziente con broncopneumopatia cronico-ostruttiva (Howells and Tyler 1961, Wongsurakiat et al. 2004), con 6 morti nei gruppi con antinfluenzale e 7 nei gruppi placebo, e di altri due RCT su anziani sani.

Uno (Allsup et al. 2004) finanziato dal Centro Nazionale HTA (Health Technology Assessment) del Regno Unito, che ha registrato la stessa mortalità nel gruppo dei vaccinati e in quello dei non vaccinati, ha concluso che la vaccinazione antinfluenzale non dà benefici e non riduce i costi del Servizio Sanitario Nazionale in soggetti 65-74enni sani.

L’altro, finanziato e seguito da Glaxo Smith Kline con autori in relazioni finanziarie o suoi dipendenti (Langley et al. 2011), conferma che il vaccino è immunogeno (anche negli anziani), pur con più reazioni avverse locali e sistemiche, ma trova che si associa a meno morti rispetto al placebo.

La somma dei morti totali nei sei RCT su anziani dà percentuali di morti piccole e simili in rapporto ai partecipanti:

  • Vaccinati, 53 morti/4.217 partecipanti [12.3%, n.d.r.];

  • Placebo, 33 morti/3081 partecipanti [12.6%, n.d.r.]

Ci sono prove basate sui migliori studi osservazionali che la vaccinazione antinfluenzale in un insieme di anziani dia più benefici che danni?

Studi osservazionali tradizionali suggeriscono che la vaccinazione di soggetti anziani riduca il rischio di ricoveri e di morte del 25% e più. Tali studi sono però soggetti a confondimento dovuto alla tendenza dei soggetti “più sani” e più attenti alla loro condizione di benessere a sottoporsi a vaccinazione, come dimostrato in diverse situazioni. Un disegno che ovvia, almeno in parte, a tale distorsione è lo studio osservazionale con “regression discontinuity design”.

Questo è il disegno quasi-sperimentale applicato sempre più frequentemente in situazioni in cui un esito sia associato a una variabile continua (nel nostro caso l’età) per la quale si stabilisca un criterio soglia al quale proporre un particolare intervento sanitario.

Il recente studio con tale disegno qui riportato (Anderson et al. 2020) fa riferimento alla raccomandazione introdotta nel Regno Unito di proporre la vaccinazione antinfluenzale alle persone con più di 65 anni, a partire dalla stagione influenzale 2000-2001.

Si sono considerati i ricoveri ospedalieri da aprile 2000 a marzo 2011 (170 milioni) e i decessi fra il Gennaio 2000 e il Dicembre 2014 (7,6 milioni).

Si sono calcolati i tassi, aggiustati per età, per ogni 10.000 persone. Di fatto, confrontando i tassi di ricovero e di mortalità di 55–65enni e 65–75enni tenendo conto del trend attribuibile all’età, non si è osservata alcuna significatività statistica.

Questo enorme studio osservazionale sull’antinfluenzale nei 55-75enni di Inghilterra e Galles dal 2000 al 2014 (che nel periodo considerato hanno avuto un aumento di 20 punti % nella copertura con vaccinazione antinfluenzale), mostra nei vaccinati una costante tendenza al danno, benché non statisticamente significativa.

Se tali stime puntuali formulate per Inghilterra e Galles nei vaccinati per ricoveri (+9,1 ogni 10.000) e per mortalità totale (+1,1 ogni 10.000) (Anderson et al. 2020, Donzelli 2020) fossero proiettate su una popolazione di circa 13,8 milioni di anziani, tale popolazione registrerebbe ogni anno quasi 12.500 ricoveri in più e circa 1.500 morti in più rispetto alla strategia di non vaccinare

Ciò supera anche l’argomento, spesso invocato a favore della vaccinazione, che “alleggerirebbe il carico assistenziale”. In realtà le migliori prove ad oggi disponibili mostrano che il carico assistenziale nei confronti degli anziani non ne sarebbe affatto ridotto.

Continuare a rilanciare campagne di vaccinazione antinfluenzale indiscriminata (anziché mirata ai cardiopatici per cui ci sono prove di beneficio), o, peggio, obbligatoria, non ha ad oggi un valido supporto scientifico, e potrebbe nell’insieme fare più danni che benefici.

Ci sono prove da RCT che la vaccinazione antinfluenzale degli adulti sani comporti vantaggi netti e che quella delle gravide sia benefica per la prole?

Una revisione sistematica Cochrane condotta su studi sulla vaccinazione antinfluenzale in adulti sani (Demicheli et al. 2018), dai 16 ai 65 anni, ne ha ridimensionato l’efficacia, evidenziando che “il NNV (numero di adulti sani che bisogna vaccinare per evitare 1 influenza e 1 sindrome influenzale/influenza-like illness/ILI) è compreso tra 71 e 29 vaccinazioni.

Cioè, per evitare 1 caso di influenza o 1 di ILI in una popolazione bisogna effettuare rispettivamente 71 e 29 iniezioni di vaccino (Demicheli et al. 2018).

Il numero di vaccinazioni da effettuare (NNV) per evitare 1 influenza nelle donne gravide è elevato: nella revisione sopra citata (Demicheli et al. 2018) è risultato di 55 per le madri e di 56 per i neonati. La revisione (Demicheli et al. 2018) afferma:

l’effetto protettivo della vaccinazione per le madri e i nuovi nati è stato molto modesto ... più modesto di quello osservato in altre popolazioni considerate in questa revisione ... non siamo certi della protezione offerta alle gravide contro l’ILI e contro l’influenza da parte del vaccino antinfluenzale inattivato, o quanto meno tale protezione è risultata molto limitata”.

Ci sono prove da RCT che la vaccinazione antinfluenzale dei bambini abbia più vantaggi che svantaggi?

Sui Quaderni dell’Associazione Culturale Pediatri/ACP si è tenuto un dibattito in merito alle 7 condizioni necessarie per introdurre una vaccinazione di massa come l’antinfluenzale per i bambini. Le riportiamo di seguito evidenziando solo alcuni dati e rinviando alla pubblicazione per la trattazione estesa.

Prima condizione: La malattia per cui si propone il vaccino deve essere sufficientemente grave

Gli autori riportano che nella stagione 2016-17 il numero totale di casi gravi e confermati per influenza ricoverati in terapia intensiva sono stati 230 nell’intera popolazione italiana:

  • (95% con almeno un fattore di rischio), …

  • dei quali 68 deceduti (il 100% con fattori di rischio preesistenti) (Epicentro 2018);

  • il 25% di queste persone era vaccinato.

Nella stagione 2017-18 i casi gravi ricoverati in terapia intensiva sono stati 729,

  • di cui 153 deceduti;

  • 15 i casi gravi segnalati in donne gravide, con 2 decessi;

  • 11 i bambini deceduti con meno di 14 anni.

Nello stesso periodo di osservazione in Italia sono morte per tutte le cause più di 200.000 persone e tra queste alcune migliaia di bambini.

Seconda condizione: Il vaccino dev’essere efficace

Secondo la revisione Cochrane (Jefferson et al. 2018) 12 bambini dovrebbero in media essere vaccinati per evitare un caso di sindrome simil-influenzale (ILI).

Gli altri 11 riceverebbero tutti gli anni un’iniezione di vaccino senza ricavarne benefici.

Terza condizione: Il vaccino deve avere effetti avversi limitati per frequenza e gravità

I dati sugli eventi avversi [per i vaccini in commercio] non sono stati ben descritti negli studi disponibili. Sono necessari approcci standardizzati alla definizione, all’accertamento e alla segnalazione di eventi avversi (Jefferson et al. 2018). L’incidenza di otite media è probabilmente simile tra vaccinati e non vaccinati (31% verso 27%), sebbene gli intervalli di confidenza non escludano un importante aumento di otite media dopo la vaccinazione.

In seguito per altro si sono rilevati in Europa migliaia di casi di narcolessia (una patologia grave e incurabile) associati a uno dei vaccini antinfluenzali, il Pandemrix.] (Doshi 2018)

Quarta condizione: L’organizzazione dev’essere in grado di reggere

Quinta condizione: Ci devono essere le risorse sufficienti

Sesta condizione: Valutare gli effetti collaterali (avversi o benefici, anche aspecifici)

Settima condizione: Effettuare una seria valutazione costo – opportunità (al fine di stabilire le priorità)

Una valutazione costo-opportunità rende ancor più discutibile l’offerta generale gratuita di questa vaccinazione dai punti di vista della Società o di un SSN che voglia ottimizzare la resa in salute delle risorse assegnate dal Paese.

È razionale introdurre la vaccinazione antinfluenzale nei bambini dai 6 mesi di vita, con due dosi di vaccino antinfluenzale, per il rischio di concomitante epidemia di COVID-19?

Si sono già riportate le conclusioni della revisione sistematica Cochrane sull’antinfluenzale nei bambini (41 studi, oltre 200.000 partecipanti): per evitare 1 sindrome influenzale (ILI) 12 bambini di 2-16 anni devono ricevere vaccinazioni antinfluenzali (con virus inattivati). L’efficacia nei bambini inferiori ai 2 anni sembra ancor minore (Jefferson et al. 2018).

Trattandosi quasi sempre di bimbi mai prima vaccinati, occorrono due somministrazioni: dunque per evitare 1 ILI si dovrebbero praticare in media 24 iniezioni di vaccino (da 22 a 50). Ciò comporterebbe carichi di lavoro aggiuntivi pesanti per gli operatori, costi aggiuntivi per ore di lavoro di Centri vaccinali e compensi a Pediatri, oltre ai costi di vaccini da ripetere tutti gli anni.

Per non parlare di reazioni indesiderate per i bambini (le sole reazioni in sede di iniezione interessano circa un bimbo su tre) (Pepin et al. 2019), e del tempo di vita e di lavoro perso per i genitori che li dovrebbero accompagnare. Il bilancio netto sembra decisamente sfavorevole.

La vaccinazione antinfluenzale può produrre effetto gregge e interrompere la catena epidemiologica dell’infezione?

Secondo la teoria dell’immunità di gregge la trasmissibilità delle malattie infettive si interrompe quando una parte della popolazione sviluppa anticorpi protettivi nei confronti della malattia (herd immunity).

Tale immunità, conferita dal superamento della malattia naturale o da una vaccinazione, riduce la circolazione del patogeno e ne beneficiano anche i soggetti ancora suscettibili.

L’immunità di gregge non è data dalla “somma” delle resistenze individuali, cioè non è proporzionale al numero di soggetti divenuti immuni, ma “scatta” oltre una certa “soglia critica”, diversa in base alle caratteristiche dell’agente, quando il numero di soggetti immuni in un certo territorio è così alto che il microbo non può più propagarsi alla popolazione.

Il concetto di immunità di gregge si applica ad ampie comunità sociali in cui vari membri entrano in contatto reciproco. Non ha senso parlare di “immunità di gregge” in una comunità piccola e aperta. È ovvio che se un membro della famiglia è immune dalla malattia gli altri avranno meno probabilità di contrarla da tale membro, ma l’immunizzazione acquisita da un membro della famiglia non è condizione necessaria né sufficiente a proteggere la famiglia. Infatti, i vari membri della famiglia (o i bambini di una scuola) potrebbero contrarre la malattia da molti altri soggetti non immuni o portatori per quel microbo, con cui vengano a contatto nella vita quotidiana. In questi casi, la vaccinazione può essere raccomandabile, ma non interrompe la catena dei contagi.

La Guida all’uso dei farmaci, prodotta dal Ministero della Salute, Direzione Generale dei Farmaci e dei Dispositivi Medici, sulla base del British National Formulary, 2003, paragrafo 14.4, pag. 517, recita:

dal momento che i vaccini antinfluenzali non controllano la diffusione della malattia, sono indicati solo nei soggetti ad alto rischio. (Ministero Salute 2003)”

Si segnala infine che, in uno studio per rilevare virus infettivi nel respiro di 178 giovani adulti volontari con sintomi influenzali, l’aerosol fine del respiro esalato ha mostrato una diffusione virale in tendenza maggiore in chi ha riferito una vaccinazione antinfluenzale nella stagione in corso, come pure una vaccinazione antinfluenzale nel solo anno precedente, mentre in chi ha riferito una vaccinazione antinfluenzale sia nella stagione in corso che in quella precedente la diffusione virale è risultata significativamente maggiore rispetto ai non vaccinati: 6,3 volte di più (con intervalli di confidenza da 1,9 a 21,5 volte) (Yan et al. 2018). Questo è un motivo in più per considerare la vaccinazione come protettiva per i singoli che si vaccinano, ma non utilizzabile come mezzo di controllo della catena epidemiologica in una popolazione.

La vaccinazione antinfluenzale può dare interferenza virale, e in particolare aumentare altre infezioni virali?

Nei vaccinati contro l’influenza può esserci un rischio di eccesso di altre malattie virali.

Sul tema risulta disponibile un solo RCT, in 115 bambini (Cowling et al. 2012), randomizzati a una vaccinazione antinfluenzale o a un placebo.

Nei successivi 9 mesi (dunque con follow-up molto più lungo di quello dei correnti RCT sull’immunogenicità dei vaccini, che spesso si limitano a poche settimane di follow-up dopo la somministrazione), i bambini sono risultati più protetti rispetto all’influenza (30 influenze stagionali in meno rispetto al placebo), ma hanno avuto un eccesso significativo di altre infezioni virali confermate virologicamente (+302 altre infezioni da virus non influenzali).

Fino ad eventuali altri RCT di segno diverso che ne ribaltino i risultati, questo RCT mette radicalmente in dubbio l’opportunità dell’antinfluenzale in età pediatrica.

Per altro, l’interferenza virale è stata rilevata anche in adulti militari USA (Wolff 2020). I vaccinati con antinfluenzale hanno mostrato meno influenze, e significativamente meno parainfluenze e infezioni da virus respiratorio sinciziale, ma un aumento significativo di infezioni da coronavirus (+36%, anche se non circolava ancora il SARS-CoV-2), da metapneumovirus (+56%) e dall’insieme dei virus non-influenzali (+15%), oltre a un aumento quantitativamente ancor maggiore di malattie respiratorie in cui non si è potuto identificare il patogeno (+59%). L’eccesso netto di patologie respiratorie nei vaccinati è risultato importante.

Il fatto che nei vaccinati siano aumentate, tra l’altro, infezioni da coronavirus, dovrebbe indurre alla prudenza.

Ci sono prove che la vaccinazione antinfluenzale del personale sanitario abbia più vantaggi che svantaggi?

L’idea che vaccinare il personale sanitario serva a proteggere i pazienti vulnerabili sembra intuitiva. In realtà le prove da revisioni sistematiche di RCT scarseggiano e non sono conclusive neppure nel contesto di lungodegenze per anziani (Thomas et al. 2016), dove vi sono i pazienti più vulnerabili, che dovrebbero mostrare i vantaggi maggiori. La revisione sistematica Cochrane (Thomas et al. 2016) conclude:

L’offerta di vaccinazione antinfluenzale a personale sanitario che assista anziani in lungodegenze può avere effetto piccolo o nullo sull’influenza confermata in laboratorio (prove di bassa qualità).

Uno degli argomenti invocati per rendere obbligatoria la vaccinazione del personale sanitario è anche il risparmio in giornate lavorative che si perderebbero per influenza, con il rischio di sguarnire servizi essenziali.

Anche questo argomento, però, è poco rilevante.

Infatti, i risultati, molto eterogenei, dei RCT sul tema, metanalizzati nella revisione Cochrane su soggetti adulti sani di 16-65 anni, sono minimi: la vaccinazione farebbe in media risparmiare circa il 4% di una giornata lavorativa (Demicheli et al. 2018). Se la giornata fosse di 8 ore, cioè di 480 minuti, un risparmio medio della vaccinazione del 4% si tradurrebbe in meno di 20’ risparmiati una tantum (da cui andrebbe ulteriormente detratto il tempo di servizio, modesto in un ospedale, maggiore altrove, per spostarsi dalla propria sede operativa al punto di vaccinazione, oltre all’eventuale attesa di ricevere la prestazione e al tempo di inoculazione) (Demicheli et al. 2018).

CONCLUSIONI

Quando si decide un provvedimento di sanità pubblica, destinato a individui “sani” (cioè che non stanno richiedendo un intervento medico per problemi di salute in atto), ancor più se generalizzato, e a maggior ragione se vincolante, vale la lezione di un maestro di epidemiologia (Rose 1992):

una “misura preventiva di massa del 2° tipo” che consiste nell’“aggiungere qualche altro fattore artificiale nella speranza di fornire una protezione […] Comprende l’uso di farmaci […], le vaccinazioni e l’impiego di dosi non fisiologiche di sostanze naturali […] Non si può presumere a priori che queste misure siano sicure, dunque le prove del beneficio e in particolare della sicurezza dovranno essere stringenti.

Ciò esclude di fatto l’impiego di questo tipo di misure, salvo là dove il vantaggio offerto sia piuttosto grande, ad esempio in gruppi ad alto rischio, o per rischi comuni o gravi.

Esse si possono applicare a una condizione: che i destinatari siano informati degli aspetti noti così come delle incertezze…”.

Questa lezione vale anche per la vaccinazione antinfluenzale.

La pandemia di COVID-19 ha indotto il Governo a estendere e rafforzare la raccomandazione di vaccinazione antinfluenzale, e varie Regioni ne hanno ordinato l’obbligo per anziani e personale sanitario.

Ad oggi, però, le ricerche più valide su anziani hanno dimostrato la sua utilità solo in cardiopatici in fase attiva, mentre per non cardiopatici le prove non hanno mostrato una tendenza favorevole. Lo stesso sembra valere per la vaccinazione indiscriminata di gravide e bambini. Anche per sanitari mancano prove valide di benefici netti, e comunque un obbligo non sembra compatibile con l’ordinamento vigente.

La scelta di un vaccino quadrivalente ad alta dose con ceppi diversi da quelli raccomandati dall’OMS sembra un’ulteriore criticità.

Inoltre, la vaccinazione antinfluenzale:

  • ha efficacia moderata nei confronti dell’influenza, ma non è efficace verso le ben più numerose sindromi influenzali da virus diversi da quelli dell’influenza

  • in base ad alcuni studi potrebbe aumentare altre infezioni respiratorie (interferenza virale), comprese alcune da coronavirus (anche se mancano prove rispetto al SARS-CoV-2). Non è comunque stato chiarito se sia risultata associata a prognosi migliore negli affetti da COVID-19

  • non consente di distinguere sindromi influenzali da forme iniziali di COVID-19, che richiedono comunque test diagnostici specifici

  • se estesa come deciso da alcune Regioni, a fronte di un bilancio netto molto incerto tra benefici e danni, comporterebbe pesanti costi organizzativi, finanziari e disagi, in competizione con possibili usi molto migliori delle risorse corrispondenti.

Al di fuori di gruppi ad alto rischio con solide prove di benefici netti, per la generalità di anziani, (adulti e) donne gravide, bambini e personale sanitario vi sono ancora sostanziali incertezze sul bilancio tra possibili benefici e danni. Le prove disponibili andrebbero vagliate in un confronto scientifico aperto anche ai contributi di posizioni scientifiche oggi di minoranza, secondo un nuovo modello epistemologico di scienza da affiancare alla “scienza normale” (Kuhn 1969), che andrebbe utilizzato quando «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti» (Futowicz e Ravetz 1997).

In attesa che ampi RCT pragmatici, indipendenti da sponsor commerciali, con gruppi di controllo appropriati e follow-up esteso, chiariscano se vi siano benefici netti e la loro entità per le popolazioni cui questa vaccinazione è proposta, le prove scientifiche qui documentate consigliano di rinunciare all’obbligo e una moratoria sull’estensione della vaccinazione.

 

CC

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